Negli ultimi anni si sta sempre più sviluppando una particolare declinazione del rapporto di lavoro subordinato che prescinde dalla comune idea di luogo e orario della prestazione lavorativa e che risulta sempre più diffuso in quelle realtà aziendali che intendano superare le logiche tradizionali del lavoro subordinato.
Si parla quindi di telelavoro laddove la prestazione lavorativa viene svolta con particolari modalità, ossia viene svolta, a seguito di accordo tra le parti, al di fuori dei locali aziendali, solitamente da casa o da un altro ufficio nella disponibilità del dipendente, e tramite l’ausilio di strumenti informatici e sistemi di telecomunicazioni. Il perimetro del telelavoro è stato ampliato grazie all’introduzione di specifiche regolamentazioni, ad esempio sul c.d. smart working o lavoro agile.
Il telelavoro non ha mai trovato una collocazione in un testo normativo ma regolato da una disciplina ad hoc con l’accordo quadro europeo del 2002 e l’accordo interconfederale nazionale del 2004. Successivamente, anche alcuni contratti collettivi nazionali hanno provato ad allinearsi alla citata disciplina, rivelandosi però ancora troppo rigidi e difficili da applicare al caso specifico.
Invece, con il concetto di lavoro agile non si intende una nuova forma di telelavoro, piuttosto un’evoluzione concettuale dello stesso.
Infatti, alla luce dell’articolo 15, del Capo II, del Ddl, lo smart working, che si pone quale obiettivo l’incremento della competitività e l’agevolazione della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, è definito come una “modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa”.
Quindi, tanto il telelavoro quando il lavoro agile prevedono lo spostamento dell’attività lavorativa (in tutto o in parte) e della sede di lavoro dai locali aziendali all’esterno della stessa (senza una postazione fissa e che può coincidere con l’abitazione) fissando solo i limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva.
Ma, in caso di licenziamento del Lavoratore, qual è il giudice territorialmente competente? Il codice di procedura civile stabilisce che in caso di controversie in materia di lavoro, è competente il Tribunale ove è “sorto il lavoro ovvero si trova l’azienda o una sua dipendenza alla quale è addetto il lavoratore o presso la quale egli prestava la sua opera al momento della fine del rapporto”. A chiarire i dubbi in materia di licenziamento del telelavoratore o lavoratore agile è intervenuta la Corte di Cassazione con l’ordinanza del 5-8 febbraio 2018, n. 3154, ove è precisato che “la nozione di dipendenza alla quale è addetto il lavoratore, di cui all’art. 413 c.p.c., deve essere interpretata in senso estensivo, come articolazione dell’organizzazione aziendale nella quale il dipendente lavora, potendo coincidere anche con abitazione privata del lavoratore, se dotata di strumenti di supporto dell’attività lavorativa. Condizione minima, ma sufficiente a tal fine, è che l’imprenditore abbia configurato tale organizzazione del lavoro e che l’azienda disponga in quel luogo di un nucleo di beni organizzati per l’esercizio dell’impresa, cioè destinato al soddisfacimento delle finalità imprenditoriali, anche se modesto e di esigue dimensioni; è sufficiente che in tale nucleo operi anche un solo dipendente e non è necessario che i relativi locali e le relative attrezzature siano di proprietà aziendale, ben potendo essere di proprietà del lavoratore stesso o di terzi”. Pertanto in caso di licenziamento del telelavoratore o dello smart worker, potrebbe quindi risultare competente il giudice del luogo in cui si trova l’abitazione dello stesso Lavoratore o, comunque, la sede da cui ha prestato la propria attività.